Una violenta emissione di massa coronale può trasformare una semplice aurora boreale in una catastrofe globale. Ecco cosa accadrebbe in caso di blackout geomagnetico.

Una notte limpida, nel bel mezzo del ciclo solare massimo. Il cielo si colora all’improvviso di verde e porpora: un’aurora boreale spettacolare, visibile anche a latitudini insolite. Sembra un evento raro e suggestivo, e lo è. Ma non è un buon segno. È l’avvisaglia di qualcosa di ben più drammatico.
Pochi minuti dopo, i primi segnali: le luci tremolano, le connessioni internet rallentano, i segnali televisivi si interrompono. Alcuni riescono ancora a leggere gli avvisi online: una tempesta geomagnetica sta per colpire. Poi tutto si spegne. Inizia il blackout.
Il Sole ci colpisce con bombe di plasma
Non è un film. Questo scenario è stato descritto dall’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti come realistico. A generare la crisi è una CME, una coronal mass ejection, ossia un’espulsione di massa coronale. Si tratta di vere e proprie sfere di plasma supercaldo, composte da miliardi di tonnellate di particelle elettricamente cariche, che il Sole scaglia a velocità fino a 3.000 km/s. Se una di queste sfere colpisse in pieno il nostro pianeta, il campo magnetico terrestre verrebbe travolto.
Secondo Luigi Smaldone, astrofisico dell’Università di Napoli, «il contatto con una CME genererebbe correnti elettriche intense nelle linee di distribuzione. I trasformatori salterebbero uno dopo l’altro, fondendosi in modo irreversibile». Le centrali elettriche collasserebbero. Niente luce. Niente acqua corrente. Niente comunicazioni.
Dal blackout ai crolli sistemici
Giorno 1. Le metropolitane si fermano. Le pompe della benzina non funzionano. Oleodotti e gasdotti si bloccano. Gli ospedali vanno avanti con i generatori di emergenza, ma solo per poche ore. I satelliti vengono danneggiati dalla radiazione solare. GPS e sistemi di navigazione diventano inaffidabili: aerei e navi perdono l’orientamento.
Giorno 6. Inizia la crisi sanitaria: le dialisi si fermano, le terapie intensive non possono più funzionare. Le medicine iniziano a scarseggiare. Gli ascensori non funzionano: chi vive nei grattacieli si sposta nelle campagne. Il cibo nei supermercati finisce, e nessuno può rifornirli: la logistica dipende da un sistema elettronico in frantumi.
Giorno 30. È il caos. Le persone scoprono che i soldi digitali non esistono più: nessun bancomat funziona, nessun terminale può accedere ai conti. Senza elettricità, anche la produzione industriale si ferma. Le raffinerie sono silenziose, le fabbriche immobili. I danni ai trasformatori richiedono anni per essere riparati, e la filiera globale è spezzata.
Il conto finale: milioni di vittime e anni di buio
Secondo le stime del rapporto statunitense, un evento di questa portata potrebbe causare fino a 300 milioni di morti nel mondo, soprattutto a causa del collasso dei sistemi sanitari, alimentari e idrici. I danni economici supererebbero quelli di decine di uragani come Katrina. L’effetto sulle comunicazioni sarebbe planetario, mentre il danno alle reti elettriche si estenderebbe a interi continenti, soprattutto nelle aree sopra i 45° di latitudine nord e sud.
«I Paesi equatoriali, pur essendo più poveri, sarebbero in parte protetti. Proprio perché hanno infrastrutture meno complesse, e dunque meno vulnerabili», spiega Smaldone. I pochi radioamatori alimentati da pannelli solari sarebbero gli unici in grado di trasmettere notizie.
Un ritorno alla normalità? Lento, lunghissimo: da 4 a 10 anni, secondo le previsioni. Fino ad allora, l’umanità dovrebbe imparare a sopravvivere senza ciò che oggi consideriamo scontato: energia, rete, tecnologia. E tutto sarebbe cominciato con un’aurora mozzafiato.