Il sudario consumato e la bocca spalancata furono scambiati per segni di vampirismo, ma erano solo effetti della decomposizione.

Era una donna. In vita si pensava fosse posseduta dal demonio, nella morte divenne un incubo: una creatura che, tornata dalla tomba, si cibava dei cadaveri dei suoi vicini, diffondendo la pestilenza per rafforzarsi. Così narra la leggenda del nachzehrer, il “divoratore della notte”. Quando il suo corpo fu riesumato, gli indizi — il sudario consunto, la bocca spalancata — portarono a un unico verdetto: vampiro. Per fermarla, le fu infilato a forza un mattone in bocca, frantumandole denti e mascella, secondo un rituale che affondava le radici nella paura e nella disperazione.
A quattro secoli da quell’esorcismo, tra il 2006 e il 2008, l’archeologo forense Matteo Borrini ha riportato alla luce quella sepoltura sul Lazzaretto Nuovo, isola della laguna veneziana, rivelando un frammento di storia in cui la superstizione era più forte della ragione.
Epidemie e demoni: la peste come colpa sovrannaturale
Nel XVII secolo, un terzo della popolazione europea moriva a causa delle epidemie. In un mondo sconvolto da carestie, freddo estremo e malattie, la spiegazione razionale lasciava spazio a credenze terrificanti. A raccontarlo è lo stesso Borrini, che spiega come, nel cuore dell’Europa, si radicò l’idea che le epidemie fossero causate da esseri malefici, come i nachzehrer.
Apparsi per la prima volta in Polonia nel Trecento, questi vampiri venivano accusati di nutrirsi dei corpi degli appestati, diffondendo il morbo per rafforzarsi fino a emergere dalle tombe. Venezia, città cosmopolita e densamente popolata, pagò un prezzo altissimo: solo tra il 1630 e il 1631, la peste spazzò via 50.000 abitanti su 150.000.
Riti contro l’orrore: la scienza delle tenebre
In assenza di cure efficaci, ogni mezzo era lecito. I medici prescrivevano teriaca — una miscela a base di carne di vipera e oppio — mentre le autorità imponevano quarantene e patenti di sanità. Ma tutto sembrava inutile. Così la lotta al contagio si spostò su un piano simbolico e rituale: identificare e neutralizzare i “colpevoli” anche dopo la morte.
Secondo le cronache, un segno inequivocabile della presenza di un nachzehrer era il sudario masticato, deteriorato all’altezza della bocca. Un comportamento spiegato dalla scienza dell’epoca come una vera e propria “masticazione del sudario”. Il teologo Philuppus Rohr, nel 1679, dedicò un’intera dissertazione universitaria alla “masticazione dei morti”.
Nel caso della cosiddetta “vampira” del Lazzaretto Nuovo — ribattezzata ID6 dagli archeologi — il corpo fu ritrovato con un mattone conficcato in bocca. Un gesto rituale preciso: impedire al vampiro di cibarsi e interrompere così il ciclo della morte.
Scienza e superstizione: la realtà dietro il mito
Ma cosa videro davvero i necrofori del XVII secolo? Secondo Matteo Borrini, i “segni del vampiro” erano in realtà effetti naturali della decomposizione. La fase enfisematosa, che si manifesta nei mesi successivi alla morte, provoca il rigonfiamento dell’addome e la fuoriuscita di liquidi, spesso confusi con resti di sangue. La pelle che si scolla e le unghie che sembrano crescere sono solo illusioni generate dalla decomposizione.
Anche il sudario che sembrava “masticato” era vittima dei gas corporei, che inumidivano e facevano collassare il tessuto nella bocca del cadavere, dove poi si deteriorava. Ma queste conoscenze erano fuori portata all’epoca. Per chi seppelliva i morti, il contatto con un corpo ancora “intatto” — in un’epoca in cui le tombe venivano riaperte spesso per far spazio a nuove vittime — bastava per evocare la paura del vampiro.
E così, per scacciare il male, si ricorreva a un gesto brutale ma risolutivo: il mattone nella bocca. Un rito che oggi rivela molto più sulla paura umana che sulla presenza del sovrannaturale.