Non solo dopo la pioggia: l’arcobaleno è un affascinante gioco di luce che nasce da precise condizioni fisiche. E quei sette colori? Non sono proprio come pensiamo.

Da sempre simbolo di meraviglia e poesia, l’arcobaleno è in realtà un fenomeno ottico ben preciso. La sua apparizione richiede una combinazione di fattori atmosferici: minuscole gocce d’acqua sospese nell’aria e luce solare che le attraversa con un angolo favorevole. Non serve un temporale: basta anche una cascata, una fontana o un irrigatore in controluce.
Il termine “arcobaleno” deriva dal latino arcus pluvius, cioè “arco piovoso”, e riflette la stretta connessione tra luce e umidità. Quando i raggi del Sole colpiscono le gocce, la luce viene rifratta, riflessa all’interno e poi rifratta di nuovo all’uscita. In questo processo, la luce bianca si scompone nelle sue componenti colorate: ogni goccia agisce come un minuscolo prisma naturale, regalando quello spettro sfumato che vediamo in cielo.
Rifrazione, riflessione e… un pizzico di fortuna
Dal punto di vista fisico, l’arcobaleno si forma perché le onde luminose, attraversando l’acqua, si piegano e si separano in base alla loro lunghezza d’onda. I colori più “energetici” (come il viola) si deviano maggiormente rispetto a quelli “più lunghi” come il rosso. Il risultato? Una banda continua di sfumature, che però il nostro cervello tende a interpretare come sette fasce distinte.
Affinché l’arcobaleno appaia, il Sole deve trovarsi dietro di noi, a non più di 42° sopra l’orizzonte, e di fronte devono esserci goccioline in sospensione. È proprio per questo che spesso lo si vede nel tardo pomeriggio o dopo un acquazzone. E quando la luce viene riflessa due volte all’interno della stessa goccia, può comparire un secondo arcobaleno, più pallido, con i colori invertiti e posto più in alto rispetto al primo.
I sette colori? Una convenzione più che una realtà
L’arcobaleno non ha bande nette: lo spettro visibile è una sfumatura continua, ma la mente umana lo suddivide in colori distinti. Oggi siamo abituati a elencarne sette: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto. Tuttavia, questa suddivisione non è universale né scientificamente rigida. Aristotele ne identificava solo tre; nel Rinascimento erano quattro. Isaac Newton, inizialmente, ne individuò cinque e solo in seguito li portò a sette, ispirandosi alle note musicali.
In realtà, il nostro occhio può cogliere molte più sfumature tra un colore e l’altro. Ma culturalmente, l’idea dei “sette colori” è rimasta. Ecco perché nei disegni infantili o nei simboli grafici l’arcobaleno è rappresentato a strisce, quando invece, in natura, è un passaggio fluido di toni.
Perché l’arcobaleno è un arco (e a volte un cerchio completo)

La sua forma a semicerchio non è casuale. La curvatura dipende dall’angolo di 40-42° con cui la luce viene deviata dalle gocce d’acqua. In realtà, quello che vediamo è solo una porzione di un cerchio luminoso: l’orizzonte taglia la parte inferiore. Se potessimo osservare l’arcobaleno da un aereo o da un punto molto elevato, potremmo scorgerlo per intero, come un cerchio perfetto.
La forma arcuata è quindi una questione di geometria ottica: noi ci troviamo al centro di un cono di luce colorata, con il Sole alle spalle. Più il Sole è basso sull’orizzonte, più l’arco appare alto e ampio. Al contrario, quando il Sole è troppo alto, l’angolo necessario alla rifrazione non si forma… e l’arcobaleno scompare.